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Il pacco di Natale.

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Il lungo ponte milanese è passato.
L’influenza di Lele anche, solo qualche rimasuglio della tosse malefica che l’ha perseguitato fino all’ossessione.
Nel frattempo la nostra casetta ha preso tutte le tonalità natalizie. Addobbi, luci, presepe, regalini già pronti sotto l’albero. Tutta la zona giorno parla di festa. E che festa sia dunque. Fino all’epifania questo sarà il look.

Domani anche a scuola daremo un tocco natalizio. Non sarà come gli altri anni. Lo stile “coin” lo abbandoniamo poiché il “piano” non è più una nostra esclusiva. In fondo va bene così, visto il tempo necessario agli addobbi di due aule e corridoio (negli ultimi tre anni investivamo un week end per allestire e uno per smontare e ripulire – sigh!).

Almeno una volta al giorno l’argomento Natale viene affrontato.
Mi intristisco ogni volta nel rendermi conto che avviene in modo sempre meno “cristiano”.
D’altra parte siamo i figli degli anni ottanta, dove il consumismo ha iniziato il suo successo.
Penso, con un po’ d’amarezza, a quello che per me era il Natale da bambina. Come si viveva nella mia umile famiglia.
I regali per noi non erano una cosa importante.
Importante era ciò che provavamo. Gli addobbi erano essenziali ma sempre pieni d’amore. Ricordo che papà, quando ero scolaretta delle elementari, aveva improvvisato un presepe tutto ritagliato con i cartoncini colorati. C’era tutto. L’albero poi? dei legni messi insieme per dargli la struttura, tutto addobbato con i festoni e le candeline.
Mi si riempiva il cuore.
Importante era, alla vigilia, percorrere la strada semibuia che portava alla chiesetta di Piandelvino – in Valtellina, perché lì avevamo una casetta in affitto e passavamo tutte le nostre vacanze – dove ci aspettava la lunga messa di mezzanotte.
Importante, al rientro, era mettere il bambin Gesù, dentro la capannina recitando una preghiera insieme a mamma che ci riempiva di baci come a piccoli angeli.
Importante era, per noi bambini, se nevicava: la neve morbida, in montagna, bianca, delicata come la panna.
Importante era la famiglia. I giochi per tirare tardi ed essere felici di guardare le lucine dell’albero (nel tempo è arrivato?) che si rincorrevano in modo statistico.
Fino alla befana. Quando tornavamo a Milano e papà, finalmente, andava a ritirare il regalo della ditta dove lavorava. Uno per ogni figlio. Così io e mio fratello potevamo trastullarci con i veri giocattoli, finti, di plastica. Ben diversi dai morbidi maglioncini che mamma preparava per noi o i vestitini per una bambolina usata che cuciva di notte, di nascosto, per farmi trovare il pacchettino sotto l’albero.
Bhè? mi si riempiono gli occhi di lacrimoni. Mi si stringe il cuore. Il classico detto: poveri ma felici. Ma c’erano anche i lati negativi. In fondo eravamo sì gente modesta ma vivevamo in un quartiere milanese piuttosto borghese e dovevamo comunque confrontarci con quel tipo di realtà. Al nostro rientro dalle vacanze facevamo, dunque, i conti con bambini che si vivevano situazioni ben differenti.

Allora ne soffrivo per un verso.
Oggi per un altro.
Poi il consumismo. Il tracollo delle vere tradizioni. Il ribasso del vero senso del Natale. La mancanza di ogni credo. Lo spreco. E qui mi indurisco e preferisco dimenticare. Preferisco dimenticare perché ricollego esattamente il momento in cui accadde? ma quella è un’altra storia.

Dunque. Tutto è natale. Tutto parla di natale. Anche in azienda siamo arrivati all’usuale “riconoscimento” in auge in questo Gruppo. Un’azienda che non si dimentica dei punti essenziali del calendario cristiano. Natale. Pasqua. E quindi un dono.
Il pacco di Natale, in questo caso.
Sono sempre felice di riceverlo (so di meritarmelo) forse anche perché voglio bene alla “mia” azienda. Ho fatto tanto per potermi inserire in questa realtà e quest’azienda ha fatto tanto per me. Non è sempre facile, lo ammetto. Spesso mi ritrovo in conflitto con me stessa, soprattutto perché essere qui entra in contrasto con i miei “credo” reconditi. Ma non do più spazio alle illusioni da tempo.
Ricevere il “pacco” è sempre un dono, quindi una gioia. Come tale lo attendo. Lo porto a casa. Lo apro e ne guardo il contenuto. Anche se sono anni che lo ricevo ogni volta mi stupisco per il numero delle cose golose che contiene. Una cena completa per quattro persone, dagli antipasti, ai doppi primi, al secondo, ai dolci, tanti dolci, al vino di classe, all’ottimo spumante. Non è necessario aggiungere nulla, perchè alla fine c’è anche il caffè.
Sembro sempre una ragazzina e sono consapevole del fatto che, in fondo, potrebbe non andare così. Mediamente non va così. Mi ricordo molto bene quando lavoravo da altre parti… dovevo ringraziare perchè mi elargivano la tredicesima, che mi spettava, e magari, se ero molto fortunata, un panettone.
Molte realtà sono diverse.
È per questo che mi intristisco e arrabbio quando sento i “commenti del giorno dopo” fatti da alcune colleghe. Il disprezzo che sento trapelare dalle loro parole a volte mi lascia senza fiato. Disprezzo per il gesto, disprezzo per i contenuti. E sono soprattutto i più giovani a farlo.
Giovani che, magari, hanno un contratto precario (ma dopo lunghi anni non si decidono a cambiare e nemmeno ci provano).
Giovani che hanno intrapreso come primo lavoro un percorso con quest’azienda (e si ritrovano inquadrati con un contratto da favola rispetto al “mondo”).
In quest’azienda dove possono fermarsi a fare lunghe “pause caffè”, dove possono prendersi lunghe “pause riflessive” per poter disquisire con altri colleghi, dove possono vestire in modo assolutamente informale senza vincoli o obblighi, dove un piercing, in fondo, non viene mal tollerato.
Sono colleghi. Persone alle quali spesso mi sono affezionata ma che nel tempo mi hanno disillusa. Vuoti. Privi di contenuti. Privi di memoria. Privi di morale. E non mi ci specchio, non mi piaciono, e, spesso, mi annoiano a morte.
E proprio loro sono attivisti dello sprezzo verso un gesto che, invece, a mio avviso, sa ancora di buono ma al quale non vogliono rinunciare.

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